Sulle mostre, la didattica e la scrittura storico-artistica

INTERVISTA A TOMASO MONTANARI, a cura di Luca Bortolotti, news-art.it, 20/11/2013

MontanariImpegnato ormai da anni in un assiduo esercizio civico di difesa (talora purtroppo vana) del nostro più che minacciato patrimonio artistico – attraverso i suoi libri, gli articoli sul Fatto Quotidiano e sul Corriere della Sera, nonché i suoi vari interventi pubblici e istituzionali – Tomaso Montanari è costantemente attivo anche come recensore non neutrale e non conciliante (o rassegnato) delle mostre che proliferano in lungo a in largo per la nostra penisola, raramente necessarie o utili, per lo più rispondenti in primo luogo a logiche commerciali e politiche. Trattandosi di un tema cruciale che sta particolarmente a cuore a News-art ci è sembrato di estremo interesse parlarne direttamente con lo studioso, cercando di far emergere i problemi di carattere generale e le molteplici implicazioni che si legano al controverso e inarrestabile fenomeno-mostre.

D. Vorrei avviare la nostra chiacchierata intorno al tema delle mostre d’arte prendendo spunto da un decalogo (addirittura provocatorio nella sua ragionevolezza) da lei formalizzato in un recente intervento dedicato proprio a questo argomento. In esso, alla luce della sua esperienza di fruitore, recensore e curatore, si è impegnato a fissare i punti cardinali che dovrebbero costituire le fondamenta ottimali per una mostra che dal punto di vista progettuale, scientifico, didattico, possa dirsi riuscita ed efficace.R. In verità, dopo i miei interventi talora molto aspri di critica ad altre esposizioni è diventato molto difficile per me curare mostre in Italia: cosa della quale, peraltro, non mi dolgo più di tanto. In primo luogo, perché sono convinto che oggi ci sia un’enorme sopravvalutazione dell’importanza delle mostre nell’attività scientifica di uno storico dell’arte; in secondo luogo, perché evidentemente il mondo è vasto e le mostre si possono organizzare anche fuori dall’Italia.
HaskellLe mie riflessioni intorno a questo tema traggono origine dagli studi di Francis Haskell, che, in particolare negli ultimi anni della sua vita, se ne occupò a più riprese. L’ultimo libro che egli scrisse, incompiuto (The Ephemerial Museum, tr. it. La nascita delle mostre, Skira, Milano 2008), nasce da una serie di conferenze che egli tenne alla Scuola Normale di Pisa mentre io ero perfezionando, della quale curai l’edizione italiana. Le considerazioni di Haskell – che allora, protetto com’ero dalla realtà un po’ astraente della Normale, mi erano parse un po’ accademiche – col passare degli anni si sono rivelate sempre più calzanti e attuali, e direi che trovano nella realtà odierna un terreno di verifica sempre più stringente e per certi versi drammatico.
Per chi si occupi del patrimonio storico artistico italiano tenendo fermo il punto di vista sancito dalla costituzione (secondo il quale la tutela è un principio che risponde agli altri principi ai quali si ispira la costituzione stessa: crescita della persona umana, eguaglianza fra i cittadini, sviluppo di una cittadinanza democratica) le mostre rappresentano nella stragrande maggioranza dei casi piuttosto un problema che non un evento positivo. Esse, infatti, si direbbero finalizzate non a produrre cittadini consapevoli ma clienti e a ricondurre anche il patrimonio artistico nell’ambito del macro-consumismo capitalistico.
In altre parole, esse sono per lo più assimilabili a un’offerta di intrattenimento e di ricreazione piuttosto che a un’opportunità di crescita culturale: paragonabili in questo senso al cinema di cassetta più che al cinema d’autore (ragione per cui credo che siano quasi sempre inappropriati i patrocini pubblici a questo tipo di industria). Ma c’è un problema ancora più grave: questo sistema, infatti, non mette a repentaglio solo il valore morale e culturale dei beni artistici, ma, trattandosi di oggetti unici, ne pone a rischio anche l’esistenza materiale (e basti pensare all’episodio recente del gesso di Canova andato distrutto mentre veniva trasportato, per essere esposto ad una mostra priva di qualsiasi progetto scientifico, da Perugia ad Assisi, a pochi chilometri di distanza).
L’intrigo di politica, affari ed eventi “artistici”, da un lato, mortifica la funzione civile del patrimonio artistico, dall’altro, rischia di danneggiare il patrimonio stesso. Di fronte a questa deriva credo si imponga sempre più la necessità di un codice etico, che fissi dei principi generali in un terreno che appare sempre più drammaticamente deregolamentato. Oggi non esiste un coordinamento nazionale delle esposizioni d’arte, non esiste alcuna pianificazione, né un foro dove trovi spazio il dibattito intorno a tali questioni: cosa tanto più grave in quanto il fenomeno-mostre investe al 90% un patrimonio pubblico, che appartiene a tutti e che si deve decidere come difendere e come utilizzare.

D. Entriamo maggiormente nel merito del codice etico, facendo emergere quelli che secondo lei ne dovrebbero costituire i punti assolutamente irrinunciabili e qualificanti.

R. Innanzitutto la mostra d’arte antica dovrebbe nascere dalla ricerca, al pari di libri o saggi, con la peculiarità però che essa si rivolge non alla ristretta cerchia di coloro che fanno ricerca ma alla generale platea dei cittadini: dovrebbe costituire il luogo e lo strumento attraverso il quale i frutti di una conoscenza scientifica e di un’elaborazione critica vengono offerti al più vasto pubblico. Ne consegue che a decidere una mostra non dovrebbe essere, come oggi accade nel 90% dei casi, un assessore o una società di servizi, ma uno studioso, un ricercatore che dovrebbe aggregare intorno a un progetto fondato altri ricercatori, istituzioni e finanziatori, in un meccanismo che non rifiuti le logiche dell’industria culturale, ma che non sia asservito ad esse.
Il fatto che oggi le mostre in Italia si facciano principalmente per volontà politiche o economiche ha come rovescio della medaglia l’idea, piuttosto diffusa tra gli storici dell’arte ma secondo me gravemente erronea, che esse si possono dividere tra quelle di nicchia e quelle destinate al “grande pubblico”. Sarebbe immorale e anche stupido pensare di organizzare una mostra per 100 persone: una mostra non è un articolo scientifico. Nel momento in cui scelgo di muovere un’opera d’arte pubblica, che non appartiene a me o alla comunità degli storici dell’arte ma a tutti i cittadini, ho il dovere di parlare a tutti i cittadini. La mostra dovrebbe costituire proprio il momento in cui la storia dell’arte esprime al massimo grado la propria vocazione civica, in cui si impegna a render conto pubblicamente della sua attività. Credo che sotto questo profilo il “mercato” delle mostre debba fare un passo indietro, mentre al mondo degli storici dell’arte spetti uno scatto in avanti in termini di consapevolezza civile. La mostra non è il punto terminale di un cammino ma, almeno in linea di principio, uno strumento per l’avanzamento della conoscenza.

Michelangelo_San GiovanninoIn secondo luogo, se oggi si decide di fare una mostra sarebbe opportuno che essa si impegnasse a realizzare qualcosa che non può essere ottenuta attraverso un libro, un saggio scientifico o una trasmissione televisiva: cosa che, piaccia o no, ha senso fare essenzialmente per la critica stilistica, laddove cioè la vicinanza di opere consente confronti che altrimenti non avrebbero la stessa forza ed efficacia. Mostre iconografiche, storiche, tematiche, dovrebbero conseguentemente rappresentare, a mio modo di vedere, una porzione minoritaria rispetto al totale delle proposte espositive, giacché in essere diventa meno essenziale la presenza fisica dei beni selezionati. Le mostre riuscite sono quelle che parlano attraverso un accostamento appropriato di opere, in grado di raccontare cose che altrimenti non si potrebbero capire. Oltre a ciò, però, per giustificare una mostra ci vorrebbe sempre una novità, un’acquisizione di qualche genere (attributivo, interpretativo, documentario) da comunicare, che dia un senso alla quota di rischio ineliminabile al quale si sottopongono i beni esposti.
Le mostre, inoltre, devono aiutare e non danneggiare il tessuto museale. E’ ancora recente la sospensione decisa dal ministro Bray di una mostra organizzata dalla società di servizi Mondo Mostre e dal Comitato San Floriano, che avrebbe dovuto esporre all’interno della Galleria Borghese la statua di San Giovannino da poco recuperata e attribuita a mio avviso giustamente a Michelangelo: un progetto privo di motivazioni filologiche, non esistendo alcun nesso tra l’opera e lo spazio straordinariamente prezioso che avrebbe dovuto accoglierla (ritengo tra l’altro che nessun tipo di mostra andrebbe ospitata in un luogo come la Borghese, dove nulla dovrebbe essere toccato e dove il visitatore dovrebbe trovare esclusivamente le opere che la compongono).

Leone XPer fare un altro esempio la recente mostra fiorentina dedicata a Leone X (Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze, Sillabe, Firenze 2013) con il suo allestimento aveva un effetto devastante sulle cappelle medicee che la ospitavano, con una serie di tramezzi che impedivano la visione delle tombe granducali. Per di più, il bookshop al piano di sotto insiste materialmente sulle tombe stesse, con un contenitore di cartoline posto direttamente sulla tomba di Leopoldo de’ Medici. Una mostra non può danneggiare il patrimonio: è una banalità, eppure succede continuamente.

Vado avanti: quando in occasione di una mostra un’opera viene restaurata o pulita, come accade regolarmente, gli interventi dovrebbero sempre essere documentati. Si direbbe una prassi ovvia, eppure, anche in questo caso, essa risulta tutt’altro che scontata: perché le mostre non appartengono realmente al circuito della conoscenza quanto piuttosto a quello dell’intrattenimento.
Sarebbe inoltre indispensabile che solo il curatore avesse voce in capitolo sulla lista dei prestiti, mentre sappiamo bene come nella realtà la composizione delle opere di una mostra sia spesso frutto di faticose operazioni diplomatiche dovute a una moltitudine di ragioni (commerciali, politiche, clientelari eccetera) e di soggetti, con un continuo lavorio di aggiunte e di sottrazioni che nulla ha a che fare con un progetto scientifico serio. Analogamente, gli apparati didattici, dalle audio guide (che detesto) ai pannelli, dovrebbe essere curato e scritto dagli stessi studiosi che sono responsabili della mostra e del catalogo, e non dovrebbero essere affidati in subappalto, come si trattasse di un aspetto secondario e non complementare all’esposizione e alle sue ragioni d’essere, così contraddicendo nei fatti il principio che essa debba rivolgersi a tutti e non solo alla cerchia ristretta degli storici dell’arte.
In estrema sintesi, per chiudere il ragionamento, direi che una mostra, diversamente da quanto accade oggi quasi sempre, dovrebbe somigliare più a una scuola che a un supermercato.

D. Vorrei soffermarmi con lei intorno alle problematiche più scientifiche poste dalle mostre, sulle quali tante volte lei ha avuto modo di ragionare, in particolare in riferimento agli apparati filologici e divulgativi che accompagnano e sostanziano l’evento in sé. Non ritiene che le aberrazioni (di impianto teorico, impostazione scientifica, lessico, logica argomentativa) che tanto spesso è dato rilevare nella letteratura di supporto alle esposizioni di arte antica derivino almeno in parte anche da responsabilità della storia dell’arte per come essa viene praticata (in particolare in Italia), e dalla trama di consuetudini, convenzioni, codici retorici, procedure che spesso essa assume in termini meccanici, senza cioè interrogarsi sui presupposti, i fondamenti, le potenzialità e i traguardi cui quel sistema di sapere può mettere capo? Su questo aspetto (diciamo, in senso lato, di metodo, ovvero epistemologico) mi pare che il dibattito disciplinare latiti.

R. Certo, anche la disciplina storico artistica ha le sue gravi responsabilità. Non a caso si dibatte in una grave crisi, frutto, a mio avviso, di una progressiva perdita del suo status di disciplina umanistica, della sua incapacità di avere un ruolo nel dibattito culturale generale, e dunque della sua chiusura auto-referenziale, ma anche della perdita di rapporto con gli oggetti e con le opere, per colpa della quale oggi abbiamo un’infinità di storici dell’arte che non sono in grado di fare un’attribuzione… Il disastro attuale è l’esito del matrimonio scellerato tra una disciplina in crisi sia interna sia nei suoi rapporti con l’esterno – che vive una grave perdita di identità e che nella migliore delle ipotesi tende verso un descrittivismo antropologico o verso un’iconografia puramente descrittiva – e il mercato.
Da cosa dipende il favore che oggi riscuotono le mostre blockbuster, sottratte alle mani degli storici dell’arte? Molte responsabilità, come detto, sono di questi ultimi, ma molto dipende anche dalla legge Ronchey, che all’inizio degli anni ’90 ha affidato ai servizi aggiuntivi non solo la ristorazione o i bookshop ma la stessa organizzazione delle mostre, consegnata a società commerciali in cui troviamo di tutto: Gianni Letta presidente di Civita, Zamorani presidente di Munus, Folena presidente di Metamorfosi, e così via. Un mondo che non ha niente a che fare con la ricerca storico-artistica, al quale è stato consegnato il settore delle mostre non solo col permesso ma addirittura con l’incoraggiamento della legge.

MichelangeloD. Vorrei restare sulle responsabilità della storia dell’arte, magari precisando meglio il punto che mi preme maggiormente attraverso un esempio a lei caro. In fondo, per quanto con un linguaggio particolarmente discutibile nella forma e nei contenuti, non le sembra che gli argomenti utilizzati a sostegno dell’attribuzione a Michelangelo del famigerato Crocifisso ligneo (attentamente analizzati nel volumetto da lei dedicato al ben noto affaire, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011) siano pericolosamente prossimi, se non omologhi, a quelli del più consolidato arsenale disciplinare, di uso comune anche nella produzione saggistica ospitata nelle sedi più scientificamente e accademicamente accreditate?

R. A giudizio di Giovanna Perini, studiosa che io apprezzo molto, un grave problema della storia dell’arte in Italia sarebbe la deriva longhiana. Alla sua ipotesi a me viene da rispondere: magari! Mi sembra che la vicenda del Michelangelo sta lì a dimostrare il contrario: che dei quattro studiosi del comitato tecnico-scientifico incaricato dal ministero di esprimere un parere ai fini dell’acquisto del Crocifisso da parte della Stato, nessuno possedeva gli strumenti per valutare se le argomentazioni in favore dell’attribuzione fossero fondate e plausibili o meno, fornendo una dimostrazione sconfortante di analfabetismo formale che direi inconcepibile per dei Professori Ordinari di storia dell’arte.
In generale, direi che su tutta quella vicenda tristemente esemplare grava una combinazione micidiale di incompetenza e malafede: laddove però sono convinto che non si debba in alcun modo sottovalutare il primo dei due termini.

D. Soffermiamoci sulla funzione didattica, nel senso più ampio del termine, che una mostra riuscita dovrebbe assolvere e sugli strumenti di cui idealmente dovrebbe avvalersi. Come si dovrebbe a suo avviso accompagnare nel modo migliore il visitatore, tenendo conto evidentemente delle specificità dello strumento mostra e dell’esperienza concreta che si può fare di essa, per rendere ottimale dal punto di vista didattico, cognitivo e conoscitivo l’esperienza stessa? Complementarmente, le chiederei di fare qualche esempio di mostre che a suo avviso possono dirsi riuscite sotto questo profilo. 

Bernini pittoreR. Le risponderei a partire da una mostra complessa che ho curato e della quale ho scritto tutti i testi dell’apparato didattico: parlo di Bernini pittore, tenutasi qualche anno fa negli spazi di palazzo Barberini a Roma (Bernini pittore, Silvana Editoriale, Milano 2007). In quel caso il mio sforzo si è concentrato su una serie chiara di obiettivi: spiegare al visitatore quello che vede, le ragioni per cui ci sono quelle opere e non altre, quali sono i temi che la mostra intende affrontare, qual è lo stato delle conoscenze sull’argomento e che cosa la mostra aggiunge rispetto ad esso.
L’apparato didattico non deve coprire tutti i problemi che si celano dietro una mostra con un pastone narrativo: deve piuttosto far emergere le questioni scientifiche e rendere chiaro per quale ragione quelle certe opere sono state messe insieme.
La mostra e gli apparati didattici non vanno considerati due momenti distinti. Sono un unico oggetto: si realizza la mostra e la si racconta in modo scientificamente appropriato al visitatore che non è uno storico dell’arte.
Occorre scegliere una chiave problematizzante, senza rivolgersi al pubblico come se le opere vivessero in un eterno presente, ma dando conto delle manchevolezze, delle contraddizioni, delle difficoltà del lavoro storico. Lo spettatore deve essere messo in una sorta di disagio maieutico che sia capace di sollecitarne l’interesse e la voglia di saperne di più. Gli apparati che oggi mediamente accompagnano una mostra sono al contrario una sorta di camomilla tranquillante che sazia il visitatore e non gli infonde nessun desiderio di approfondire quello che ha visto o di comprarsi un libro, entrare in una chiesa o visitare un museo. La sfida più sostanziale che una mostra pone a chi la progetta e la cura consiste nel portare lo spettatore dentro al percorso scientifico e non, come in genere accade, costruirgliene uno parallelo banalizzato, un succedaneo a misura di pubblico “idiota”.
Arti a SienaPer fare qualche esempio recente, una mostra scientifica riuscita anche sotto il profilo didattico può essere considerata la grande rassegna “Le arti a Siena nel primo Rinascimento”, ben raccontata allo spettatore. Un altro buon esempio è l’antologica Annibale Carracci (soprattutto la versione bolognese). Il problema degli apparati, peraltro, certamente non riguarda solo le mostre ma coinvolge altrettanto gravemente anche i musei: basti pensare a cosa sono mediamente i cartellini che accompagnano le opere esposte.

D. Penso che occorrerebbe nutrire una maggiore consapevolezza anche intorno ai limiti della letteratura che si produce nei cataloghi delle mostre. La letteratura storico-artistica, infatti, appare sempre più tarata sui codici di genere e sulle convenzioni editoriali e retoriche che caratterizzano il prodotto-catalogo: il quale, pur rientrando non di rado piuttosto in una letteratura para-scientifica, se non pseudo-scientifica, nondimeno risucchia ormai una quota rilevantissima di quel che viene scritto nel nostro settore. Mi pare che anche qui gli effetti di ritorno sul paradigma disciplinare di questo fenomeno imponente da tutti i punti di vista vengano troppo poco messi in rilievo e discussi.

R. Si tratta di una cosa sulla quale Haskell ha molto riflettuto e che ha denunciato a più riprese: i cataloghi delle mostre già vent’anni fa stavano sostituendosi alla letteratura specialistica, scalzando monografie, cataloghi ragionati e studi ponderosi.
Perché non esistono più i saggi arancioni Einaudi, ossia volumi scritti da insigni specialisti che presentavano a un pubblico vasto i risultati delle loro ricerche? Perché il target è riempito dai cataloghi delle mostre, che però in genere non sono il frutto della ricerca e non presentano novità: e questo è un danno collaterale gravissimo della desertificazione culturale prodotta dal sistema delle mostre.
Penso, peraltro, che se il trend è questo il catalogo della mostra finirà addirittura per sparire. Poiché le mostre sono sempre più circhi equestri e i cataloghi si vendono sempre meno, sempre più spesso accadrà di vederli sostituiti da minimali liste ciclostilate distribuite ai visitatori all’ingresso. Il che, paradossalmente, potrebbe rivelarsi un evento negativo da cui potrebbero scaturire in prospettiva imprevedibili riflessi positivi.

Le pietre e il popoloNato a Firenze nel 1971, Tomaso Montanari è professore associato di ‘Storia dell’arte moderna’ presso l’Università degli studi di Napoli ‘Federico II’. Al centro della sua ricerca e delle sue pubblicazioni è l’arte del Seicento, e in particolare Gian Lorenzo Bernini, al quale ha dedicato un’esposizione imperniata sulla produzione pittorica (Roma, Palazzo Barberini, 2007 – 2008), nonché la mostra I marmi vivi. Bernini e la nascita del ritratto barocco, (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 2009). Dal 2005 al 2011 è stato membro del Consiglio direttivo della Consulta Universitaria di Storia dell’Arte.  Nel febbraio 2013 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». Nell’agosto del 2013 è stato nominato dal ministro Massimo Bray nella Commissione per la riforma del Ministero per i Beni Culturali.
Tra i suoi volumi più recenti, A cosa serve Michelangelo? (Einaudi 2011), Il Barocco (Einaudi 2012), La madre dei Caravaggio è sempre incinta (Skira 2012) e Le pietre e il popolo (minimum fax 2013), sulla funzione civile del patrimonio artistico. Collabora al «Fatto Quotidiano» e al «Corriere della sera».

http://www.news-art.it/news/sulle-mostre–la-didattica-e-la-scrittura-storico-artistica.htm

 

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